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03 giu 2020

Pazienti e fragili, come comunicare dopo il lockdown

Una riflessione di Gian Mario Bachetti, consulente per la comunicazione on-line di ItaliaCamp, su come dovrebbe muoversi la comunicazione dopo il lockdown

come comunicare dopo il lockdown

La quarantena non è stato un periodo facile. Non è stato uno spazio-tempo ritagliato al flusso di vita quotidiana per imparare a fare la pizza, per concludere un romanzo incompiuto o per fare qualche lavoretto di bricolage a casa. Per me, ipocondriaco professionista, è stato uno stallo alla messicana con l’ansia e la paura.

Nel ripetersi ossessivo di un ritmo di vita fluido tra momenti di lavoro in smart e momenti di svago in cui i giorni iniziavano con una tazza di tè bevuta dopo la doccia e si concludevano con il joystick della Play Station 4 tra le mani, ho fatto i conti, forse per la prima volta in vita mia, con la fragilità. Certo, ho avuto a che fare con la morte, quella dei nonni, dei genitori degli amici, dei coetanei. Ma morire è una condizione ultima, statica; mentre essere fragili è una situazione dinamica, liquida, difficile da afferrare.

Ho fatto i conti con la fragilità per mio padre cardiopatico che si era operato pochi giorni prima del lockdown, per mia madre che per lavoro ha seguito la pandemia in modo molto ravvicinato in una delle regioni più colpite, per la mia ragazza immunodepressa. Questo punto di vista mi ha fatto pensare a quando sia complessa la condizione di paziente, una condizione triplice: paziente come chi ha bisogno di cure, paziente chi deve attendere, avere fiducia nell’evoluzione di uno stato di cose e paziente anche chi ha un’attenzione particolare nelle relazioni con l’altro.

Avere a che fare con la fragilità implica quindi una cura particolare, anche e soprattutto nella comunicazione: le parole hanno un peso diverso per la bocca che le pronuncia, ma anche per l’orecchio che le ascolta. Finché siamo stati segregati nelle nostre case il mondo fuori era talmente lontano che non avevamo il bisogno di descriverlo e la comunicazione per quanto iper-accelerata e iper-mediatizzata credo sia stata in realtà molto più povera di quanto non ci sia piaciuto raccontare: non si vedono colleghi, amici e parenti, non si va al cinema, ai concerti, a teatro, non si esce al parco, non si gioca a calcetto, non si incontra un vecchio collega dell’università venuto da fuori città, non si viaggia, non si esplora. Le parole descrivevano il nostro piccolo mondo dei salotti e delle camere da letto e quello interiore delle emozioni che però sono già tanto difficili da capire, figurarsi da descrivere.

Poi con la fine della quarantena il mondo ci è esploso nuovamente in faccia con la sua complessità: un’esplosione controllata, ma pur sempre pirotecnica. Ed ecco che le parole hanno iniziato a rimpallare nelle chat, nelle telefonate, nei primi incontri faccia a faccia, pronte a descrivere tutto quello che ci eravamo persi. Il problema è che ci siamo trovati catapultati in un mondo completamente diverso, fatto di “protocolli”, di “distanze di sicurezza”, di “assembramenti “, di “movida”. Un mondo complesso nel compromesso tra cosa siamo sicuri di poter vivere e cosa no.

Come già detto, la fragilità ha a che fare con la pazienza, con l’essere pazienti, con lo stare attenti, l’avere cura. Ma anche con la comunicazione, perché è complesso far passare un messaggio giusto nel modo corretto in una condizione di fragilità. Oggi, in questa Fase 2 2.0 (o Fase 3, dipende dai punti di vista), con un mondo che iniziamo a conoscere e maneggiare ma pur sempre con un nemico invisibile e micidiale che sembra scomparso ma forse ci spia di nascosto, la comunicazione assume un ruolo secondo me ancora più importante che durante la quarantena.

Mai quanto in questo momento occorre essere chiari e tecnici, tanto nella comunicazione istituzionale, quanto in quella di brand: è finito il tempo dei caps lock, dei numeri sputati addosso agli spettatori, del “ce la faremo” e del “non dimenticateci”. Ora è il momento di ripartire, con le parole giuste. Le istituzioni saranno chiamate a leggere i numeri, ad essere sempre più specifiche e chiare, a interpretarli: protezione civile e ministeri non parlano più a persone chiuse nelle proprie case, ma a persone che vanno a lavoro, che incontrano gli amici, che viaggiano. Queste persone devono ricevere informazioni chiare, dove “chiaro” non significa “quantitativo”. Non bastano più i numeri, servono le risposte di quei numeri alle (giuste) domande che le persone stanno chiedendo.

Lo stesso vale per il mondo dei media, che dopato da algoritmi e click bite, dovrebbe tornare a vestire il ruolo di interprete dei fatti del mondo, anche affrontando e facendo luce sulle vicende più torbide che l’emergenza per la sua natura di “rapidità” ha in qualche modo nascosto.

Per concludere, la comunicazione dei brand: non dovranno essere bruciate le tappe ma bisognerà fornire ai consumatori tutte le informazioni per permettere di compiere le scelte di acquisto e fruizione più giuste. Come abbiamo già avuto modo di evidenziare in questo blog, ci troviamo davanti a una nuova tipologia di consumatori/clienti (in una parola stakeholder) per i quali l’emergenza coronavirus ha accelerato un processo di trasformazione già in corso da qualche anno e che oggi sono molto più attenti alle componenti valoriali delle aziende che scelgono. Questo discorso è sicuramente vero per le grandi corporate, chiamate sempre più alla trasparenza e a un racconto di marca che cerchi un posizionamento “politico” (nel senso meno partitico del termine) e “sociale” (nel senso di ricerca di un ruolo nella società). Ma è un approccio che vale anche per tutte le attività che oggi si trovano a fare i conti con i limiti imposti nel consumo e nella fruizione dei loro servizi e prodotti. Penso a bar, ristoranti, locali, piccole botteghe, supermercati, copisterie: anche un cartello esposto fuori da una vetrina racconta qualcosa dei valori dell’azienda. Racconta l’attenzione e la cura per un cliente, racconta il suo approccio alla fragilità.

Per questo bisogna essere pazienti: non si può più sposare la linea di una comunicazione approssimativa ma “sul pezzo”, serve una comunicazione lenta, di qualità, slow. Una comunicazione che a costo di compromettere la medaglia d’oro nello sprint vinca la sfida della maratona che durerà per i prossimi mesi (e forse anni), quando impareremo a vivere in un mondo diverso che la comunicazione dovrà raccontare, descrivere e spiegare.