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10 dic 2021

La “prossima normalità” di spazi e territori

È necessario per organizzazioni e professionisti ripensare il rapporto con gli spazi di vita e di lavoro e quello degli spazi con i territori.

La parola spazio è tra quelle che più si ripetono nelle conversazioni degli ultimi tempi: spazio come luogo di aggregazione o come area di separazione; spazio di lavoro e spazio temporale in cui conciliare vita personale e professionale; spazio delle emozioni, delle interazioni con l’altro.

Fino ad oggi abbiamo sentito parlare spesso della forma degli spazi, del loro valore, dell’organizzazione. Eppure non ci eravamo mai tanto soffermati sul loro impatto nella nostra vita, quella lavorativa e quella delle relazioni che proprio grazie alla condivisione possono diventare opportunità di connessione.

Nella confusione tra chi ancora è rimasto in remote working al 100% e chi ha ripreso a frequentare i propri uffici, ci sentiamo tutti alla ricerca del nostro nuovo posto, in cui creare una routine che possa conciliare la flessibilità con quel bisogno di socialità insito nella natura umana che nemmeno una pandemia è riuscita ad abbattere.

Ci proviamo nei co-working, nelle aree pubbliche attrezzate, in tavoli riadattati per accogliere computer e tazze di caffè.

A Roma, negli ultimi giorni, ho vissuto queste esperienze in prima persona e in diverse occasioni. Prima fra tutte nella bottega di Nicoletta, che mi ha accolto per una tisana in un vecchio pastificio ormai dismesso e che rivive ospitando professionisti eterogenei. In questo spazio di colore e calore, Nicoletta ha ricreato il suo ufficio dopo diciotto mesi stretta tra le mura di casa, con un forte bisogno di un luogo che potesse ospitare momenti di incontro, più del suo stesso lavoro. Poi con Donna, che ha scelto una piccola stanza all’interno di un borgo riorganizzato per le esigenze di professionisti, dove la piazza di incontro è il cortile su cui si affacciano i singoli uffici, spazio di scambio, di tavolini e connessioni.

Ma è molto più difficile spostare questa riflessione sui territori, soprattutto quelli più piccoli e periferici, nonostante tutto il Sud Italia – ma in generale la provincia italiana – sia stato toccato dall’ondata? del southworking: il rientro nelle città d’origine di molti lavoratori che negli anni si erano spostati, attratti dalle maggiori possibilità delle aziende del Nord. Grazie allo smartworking forzato che ha svuotato città come Milano, molti centri più periferici hanno visto rientrare, almeno per qualche mese, nuove energie, generando commenti entusiastici, sia tra chi poteva lavorare in un contesto sociale meno frenetico, sia tra giornalisti ed esperti che si sono occupati del tema. 

Ad esempio quest’estate, nella mia città – Messina – è stato fatto l’esperimento di un coworking vista mare nato con l’obiettivo di accogliere tutti i professionisti che vivevano individualmente i loro personali smartworking. Ed è qui che ho conosciuto vari nomadi digitali o più semplicemente lavoratori da remoto impegnati in lunghe call in infradito con il mare all’orizzonte oltre lo schermo.

La situazione è diventata però più complessa una volta finito il caldo. L’alternativa invernale richiede un contesto di connessioni e una cultura del lavoro intenso, non solo come tempo di esecuzione di attività ma anche di confronto e arricchimento. Perché se è vero che la flessibilità ha offerto enormi possibilità di conciliazione vita-lavoro, è pur vero che quegli spunti, sorrisi e confronti informali da macchinetta del caffè hanno generato spesso più idee di interminabili riunioni di brainstorming, complice il fatto che le nuove proposte, le soluzioni ma anche il linguaggio stesso degli scambi tra parti diventano più semplici nei momenti di comfort.

Al tempo stesso, il lento ma inesorabile rientro, ha nuovamente invertito i flussi verso le grandi città e le grandi aziende che ora – con diversi gradi di intensità – cercano soluzioni blended che possano coniugare i “pro” della presenza in sede e del lavoro da remoto.

La domanda sul valore di uno spazio è tornata quindi con ancora più forza, anche rispetto ai primi mesi di lockdown quando emergenza e novità hanno condizionato le scelte dei singoli e delle organizzazioni. 

Per vivere con consapevolezza la “prossima normalità”, la vera libertà non può essere standardizzare le modalità di lavoro tornando al vecchio status quo o muovendosi in direzione opposta, ma permettere a ognuno, che sia a Milano o in qualunque altro territorio, di trovare il benessere lavorativo in quel delicato incontro fra spazio di lavoro e spazio di relazione che è poi lo spazio in cui piantare i semi delle idee, dei progetti futuri, dello sviluppo.

Come possiamo ritrovare l’equilibrio di un luogo di incontro e lavoro che racchiuda questa esigenza, oggi è riflessione di molti territori, lì dove i numeri dei liberi professionisti sono più bassi e non riescono a giustificare la sostenibilità economica dei normali luoghi di lavoro e condivisione.

Fuori dai propri uffici, dalle proprie case, in spazi ibridi che possano accogliere e favorire l’incontro. Spazi che possano accogliere e far sentire a casa anche chi è in una condizione di mobilità, facilitandola. Facciamo sì che il tempo che viviamo possa diventare terreno in cui far rifiorire l’incontro nelle nostre comunità, piccole e grandi, professionali e prima di tutto sociali. L’idea di poter vivere sconnessi l’uno dall’altro è un fraintendimento da cui possiamo evitare di farci ingannare.